Editoriale

Almeno dieci donne sono morte al largo delle coste libiche nel naufragio di una nave carica di migranti. In 107 si sono salvati, secondo la Guardia Costiera, che è intervenuta in due distinte operazioni. Secondo una stima dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, nel 2016 oltre 230 mila arrivi, la stragrande maggioranza via mare. Quasi 3000 persone sono morte durante la traversata del Mediterraneo. La morte per la nostra cultura è oggi niente più che un incidente di percorso, una notizia e solo il numero delle vittime prova, invano, a svegliarci dal torpore di una coscienza collettiva annoiata e adagiata comodamente sul divano. Prevale l’impotenza e la rassegnazione: migliaia di disperati fuggono dalla morte che li aspetta in acqua, sommersi dai flutti, gettati in mare da moderni gerarchi nazisti della tratta di schiavi. Dieci donne, le ultime, inghiottite dalla nostra inettitudine, dal nostro egoismo indifferente oltre che dall’avidità di marinai-mostri alla guida di barconi. Chi erano queste dieci donne? Erano madri? Lo sarebbero mai diventate? I loro nomi? A nulla serve l’indignazione, a poco servono le lacrime se non seguono i fatti. Salvare le banche e’ una priorità, cercare di risolvere o almeno contenere il dramma delle migrazioni di disperati sembra una utopia. Un fallimento dell’Unione europea, dell’Onu, della Casa Bianca, degli organismi internazionali, della politica globale. Continuino a morire: la nostra vita deve proseguire. E poi domani ci sono gli Europei di calcio; c’è la partita delle partite: Germania-Italia. E sarà comunque goal.

Uno dei parametri principali per valutare il grado di civiltà espresso dalla nostra classe dirigente è quello del linguaggio che usa. Contrariamente a quanto molti non addetti ai lavori potrebbero pensare, le parole pronunciate dagli uomini politici sono ‘fatti’: non nel senso che non sia necessario verificare che ad esse corrispondano ‘azioni’ politiche: leggi, proposte, iniziative, programmi, ma perché già sufficienti per giudicare il loro livello di preparazione, lo spazio politico che intendono rappresentare, i valori di cui vogliono farsi interpreti. Da un parlamentare che usa improperi e insulti, che offende con paragoni umilianti l’avversario politico, che alza il tono della voce prevaricando sull’interlocutore e che lo interrompe, che lancia anatemi e inveisce contro tutto e tutti, cosa ci possiamo attendere? Il linguaggio della politica è esso stesso politica: circoscrive, spiega, illumina, costruisce o demolisce. Il sensazionalismo di certi organi di informazione favorisce questa tendenza e lo scarso livello di molti esponenti politici, privi di esperienza e di formazione fa il resto. L’alta percentuale di inciviltà verbale presente nella politica è tra i motivi della crescente sfiducia dei cittadini. Ricominciamo a privilegiare quei politici che riescono ad argomentare il loro pensiero con competenza e passione, rispettando il parere di tutti, evitando di denigrare il collega del partito avverso o alimentando paure strumentali e quindi inesistenti. Nel negozio di un commerciante disonesto e che vende prodotti scadenti non si entra e possiamo comunicarne il motivo ai nostri conoscenti. La scheda elettorale di un politico facinoroso e irrispettoso nel suo eloquio possiamo tranquillamente evitare di barrarla e passare parola. È già molto.

Sono passate solo poche ore dal referendum che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea ed è un risultato che in molti ancora non hanno digerito, per le conseguenze più o meno prevedibili che scatenerà. Ma, in modo parallelo, si è sviluppato un dibattito sulla legittimità di un giudizio espresso direttamente dal popolo piuttosto che dai suoi legittimi rappresentanti. Democrazia diretta o democrazia rappresentativa? Quando è utile la prima e quando la seconda? In quali contesti e su quali decisioni coinvolgere la base elettorale, facendovi ricorso, e scavalcando di fatto la classe politica? Alla base di questa riflessione la circostanza per la quale sembrerebbe che a decidere in favore della Brexit sarebbero stati i cittadini meno istruiti e consapevoli. Ma i voti non dovrebbero essere tutti uguali e avere tutti lo stesso valore, quello del contadino e quello del professore universitario, quello della sarta e quello della donna manager? O vogliamo far votare solo chi ha soldi e istruzione? La democrazia rappresentativa – piaccia o no – è o dovrebbe essere una emanazione di quella diretta. Più fedele sarà alla volontà popolare, più sarà democratica. A meno che non si diffidi del popolo, e allora il discorso cambia. Non sarà, infatti, che dietro questa querelle si nasconde una insofferenza nei confronti della democrazia tout court? Perché se cosi fosse non sarebbe inutile ricordare il pensiero di un signore di quelle parti, Winston Churchill ‘è stato detto che la democrazia è la peggiore forma di governo, eccezione fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora’. Chi la critica, si presenti, cortesemente, con un modello migliore.

Era questa l’Europa che sognavano Altiero Spinelli, Jean Monnet, Konrad Adenauer, Robert Schuman, Alcide De Gasperi?
Oggi la Gran Bretagna si pronuncia sulla Brexit, la sua uscita dalla Unione Europea.
E già questo è il segnale di un fallimento politico. Cosa e’ diventata oggi l’Unione? Forse una unità politica, riconosciuta e condivisa? O piuttosto una entità fredda e distante in cui le esigenze della moneta prevalgono su tutto il resto? E ancora, noi cittadini italiani, francesi, tedeschi, spagnoli… ci sentiamo parte di qualcosa, abbiamo una forte e riconoscibile identità europea? Da questo punto di vista il progetto europeo così come lo abbiamo vissuto in questi anni si è rivelato un flop. Serviva una visione culturale, una rappresentanza più diretta, politiche comuni, una uniformita’ di indirizzo e di azione? Sicuramente si. Anche perché se le ragioni di una alleanza sono quelle del calcolo e della convenienza, una volta venute meno condizioni favorevoli, sarà la stessa legge della convenienza a far sì che chi vi era entrato decida di uscire. Tira una brutta aria in Europa: quella dell’egoismo e del populismo. Se l’Unione non ripensa se stessa sara’ inevitabile il suo sgretolamento, con ripercussioni fatali su ognuno di noi. Cosa occorrerebbe? Una vera unione politica, una strategia unica in politica estera, provvedimenti lungimiranti sulla emergenza dei migranti e lotta vera alla povertà e alla esclusione sociale. Buona fortuna cara, vecchia Europa.

 

Si dice che i clienti abbiano sempre ragione. Lo stesso dovrebbe valere, mutatis mutandis, per gli elettori. E allora, in base a questo principio, possiamo lecitamente affermare che Grillo e i suoi adepti conquistano a ragion veduta Roma e Torino, con i sindaci Virginia Raggi e Chiara Appendino e che il premier Matteo Renzi incassa una sonora sconfitta politica, accontentandosi di una risicata vittoria di Sala su Parisi a Milano. Le elezioni comunali hanno sempre avuto valore politico, piaccia o meno. Da un voto di protesta si passa ad un voto di delusione: gli elettori o se ne stanno a casa o votano per le forze politiche antisistema. Vedremo se i 5Stelle saranno capaci di amministrare: sinora, laddove lo hanno fatto, hanno lasciato a desiderare. Chi scrive non si fida né del M5S né delle sue ricette salvifiche, diffidando di un movimento-partito che non ha democrazia interna e che ha la presunzione sciocca di lanciare una ruffiana offerta pubblica di acquisto (Opa) sull’onesta’. Il quadro politico è quantomai confuso e l’appuntamento del referendum può’ schiarirlo solo parzialmente. Il segretario del Pd nonché Premier, Renzi, esce ridimensionato da questa tornata elettorale, e può contare solo sul fatto che, ad oggi, una vera alternativa politica a lui e alla sua rabberciata maggioranza, non si intravede.

La politica di oggi si caratterizza, tra le altre cose, per la violenza verbale e l’aggressività che la pervade. Sia nei talk show televisivi sia nelle aule parlamentari ma anche nelle dichiarazioni a mezzo stampa, assistiamo ad attacchi ad personam, ad insulti e a esibizioni che hanno il solo scopo di deridere, umiliare o ridicolizzare l’avversario politico, oggi sempre di più visto come un ‘nemico pubblico’. Non c’é tempo per esporre le proprie ragioni, per spiegare: sono disponibili pochi minuti e allora molti li utilizzano per demonizzare la controparte politica. Esistono, è vero, delle felici eccezioni, figlie di una tradizione politica – comunista o democristiana – e di un modo di concepire la politica in termini di moderazione, di riflessione, di argomentazione e confronto. Tutto il resto è scontro frontale e rissa, nella convinzione che andare sopra le righe, alzare i toni serva – oltre che ad infangare il rivale in politica – anche ad ottenere visibilità e a conquistare la ribalta. I famosi 15 minuti di celebrità di cui parlava Andy Warhol e che si rivelano, come un boomerang e dopo l’effetto iniziale, una ennesima dimostrazione della propria pochezza e inconsistenza culturale. I populismi che oggi allignano nel nostro Paese – quello leghista e quello del M5S su tutti – ma anche in Europa sino ad arrivare con Donald Trump negli Usa – si cibano di frasi volgari e ad affetto, di insulti, anatemi e allarmismi: é il loro modo di essere, l’unico che conoscono per imporsi all’attenzione mediatica. Dicono di voler rappresentare l’antipolitica: hanno ragione. Sono il contrario della buona politica civile e democratica perché preferiscono parlare alla pancia degli elettori e non al loro cervello.

Etica della responsabilità è rispondere delle proprie azioni e delle proprie omissioni. Ubi societas ibi ius: una comunità che non si fonda sul diritto, non può dirsi civile. Un sistema di diritto prevede delle regole e delle sanzioni per chi non le osserva. Il grado di impunità e l’incapacità dello Stato di sanzionare in modo efficace chi non rispetta le regole che ci siamo dati, hanno assunto in Italia livelli insopportabili. Chi si assenta dal posto di lavoro va licenziato. Chi delinque deve andare in galera. Chi non è in grado di assicurare soccorsi e assistenza ai cittadini in caso di emergenze o calamita’ naturali, incendi, alluvioni, va rimosso e sanzionato. Il politico o l’amministratore pubblico che non svolge il proprio incarico va esautorato, nel rispetto delle garanzie, sia chiaro ma, a fronte di un accertamento della colpa, deve pagare. Altrimenti il sistema salta. Il balletto delle responsabilità a cui assistiamo sistematicamente nel nostro Paese dinnanzi a evidenti inadempienze o negligenze non è solo triste ma anche disarmante. Ieri in Sicilia ci sono stati incendi un po’ dovunque: verranno individuati i piromani? Chissà. Il sistema antincendio ha fatto acqua da tutte le parti. Nessuna opera di prevenzione e nessun coordinamento tra le forze di polizia e i vigili del fuoco, seppur solerti. Cosa ha fatto il governo regionale per prevenire e per attrezzarsi in termini di risorse e mezzi? Quando prende fuoco una intera regione e nessuno ne risponde, a bruciare non sono solo gli alberi ma anche la residua speranza.

E’ un fenomeno tutto italiano e che in Italia non é stato mai perseguito. Una pratica odiosa, un furto vero e proprio che si é consolidato nel tempo senza una vera riprovazione sociale. In un Paese come il nostro, con percentuali di disoccupazione da record, il ‘vizio’ di timbrare il badge che dovrebbe registrare la presenza e l’ingresso nel luogo di lavoro e immediatamente assentarsi per andare a fare la spesa o in palestra o al bar, ha assunto proporzioni vistose, se è vero come é vero che dal Nord al Sud, dalla Lombardia alle Marche, alla Sicilia, le telecamere unite rilevano questa pratica odiosa, nella sostanziale indifferenza. Oggi il governo annuncia che i colpevoli saranno condannati con il licenziamento e che i dirigenti che consentono, piu’ o meno consapevolmente, questa pratica, verranno sanzionati. Era ora. In Italia, per mancanza di lavoro, tanti giovani emigrano dal Sud o al Nord, e molti altri varcano i confini nazionali per raggiungere la Gran Bretagna o la Germania. Il pensiero che molti, con un lavoro a tempo determinato nel settore pubblico, possano rubare del tempo e del denaro, sottraendosi ad un obbligo e a un dovere, rimane sorprendente. Un sentito ringraziamento alle telecamere e alla volontà politica ora ben chiara che permetteranno di punire i colpevoli. Furbetti del cartellino? No, ladri.

Si susseguono in ordine sparso, con periodicità non prevedibile ma regolarità costante, episodi cruenti di terrorismo rivendicati da appartenenti veri o presunti all’Isis, combattenti della Jihad al grido di ‘Allak akbar’, La strage nel locale frequentato da omosessuali, a Orlando, con 50 vittime e decine di feriti, si connota per aver coniugato – nella mente del terrorista – la guerra all’Occidente con l’odio per la diversità: la nostra e quella che noi alimentiamo nei confronti delle minoranze. E’ una nuova maledetta frontiera del terrore islamico. E’ come se volessero confonderci le acque: non sappiamo dove e quando colpiranno e non sappiamo bene quali saranno i loro bersagli. L’obiettivo é unico: creare terrore, sovvertire le nostre abitudini di vita, la nostra sicurezza sociale ed economica, la nostra pace. Non é una guerra quella che hanno dichiarato, ma una guerriglia planetaria, con singoli atti di terrore che producono disorientamento e instabilità. La tesi di Samuel P. Huntington dello scontro delle civiltà (The Clash of civilizations and the remaking of world order – 1996) appare sempre piu’ accreditata ‘ la mia ipotesi é che la fonte del conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo – spiega Huntington – non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura’. Vogliono minare le nostre libertà e il nostro sistema di diritti. E’ una guerra al nostro modo di essere e alla nostra visione dell’uomo, della società, del mondo. Nessuno può chiamarsi fuori, siamo tutti coinvolti.

Uno dei motivi del rapido successo politico di Matteo Renzi, se non quello più importante, è la sua capacità di comunicare in modo efficace e convincente. Al di là della spregiudicatezza tutta toscana che lo contraddistingue, e di un coraggio che sfiora l’incoscienza e l’arroganza, il Premier ha saputo stabilire una relazione diretta con gli italiani, dando la netta impressione di recidere ogni mediazione e ogni filtro. Non si ricordano nel Paese – se non il Berlusconi dei primi tempi ma sicuramente di lui più forte in questo campo – altri politici in egual misura capaci di ‘bucare il video’, entrando in sintonia con il pubblico. L’impressione che si ha, ascoltando Renzi, è che il suo ‘discorso’ politico di volta in volta diverso a seconda della circostanza, sia improntato all’immediatezza e all’improvvisazione. Renzi non legge alcuno dei suoi interventi: va a braccio, e questo è uno dei suoi punti di forza: lo confermano i grandi oratori della storia, da Quintiliano a Cicerone (inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio i passaggi inevitabili del discorso perfetto e persuasivo). Parlare a braccio da’ la possibilità’ di guardare in faccia l’interlocutore, stabilendo una connessione che da’ forza alle parole pronunciate. Il presidente del Consiglio ha dimostrato di saper usare in modo persuasivo i social media, da Facebook a Twitter, rivoluzionando la comunicazione politica e le sue regole. Nei suoi interventi in televisione, inoltre, alterna sorrisi, battute e cambi di registro, riuscendo a spiazzare il conduttore o intervistatore, e portandolo sul terreno che più gli è congeniale. Renzi apre frasi incidentali per sfuggire a domande insidiose e alterna aneddoti, ha i tempi giusti e il ritmo che serve, e passa dal discorso ‘serio’ a quello più divertente, dimostrando che il vero nemico del discorso politico è la noia e la prevedibilità. Si può condividere o meno la politica di Matteo Renzi e la sua capacità di governare il Paese, ma non credo possa essere messa in discussione l’efficacia della sua arte oratoria.